La pesca del corallo

 

Si può leggere, nella sezione del sito dedicata alla storia, che già nel 1540 alcuni corallari di Pescino (l’attuale S. Margherita Ligure) furono catturati da Dragut, ma in realtà il mestiere dei corallari a livello locale, pur non essendovi prove certe, deve essersi sviluppato molto prima.

Il corallo infatti era conosciuto in Liguria già in epoca preistorica e con il sale probabilmente rappresentava un’importante  merce di scambio anche se prove certe della sua commercializzazione si hanno solo in epoca  medioevale.  Certo è che questo materiale fosse molto apprezzato dai popoli padani e veneti che lo utilizzavano per creare monili intarsiati e, più in generale, oggetti preziosi.

I primi dati sul suo utilizzo  nella nostra regione sono testimoniati dal ritrovamento in una caverna del finalese, utilizzata dall’uomo dal Neolitico all’età del Bronzo, di un frammento di scheletro dell’organismo con foro di sospensione. 

 

Interessante una citazione di epoca romana dello scrittore Solino che, tradendo scarse conoscenze di biologia, in riferimento al corallo afferma: “Il Mar Ligure produce arbusti che, fintanto che rimangono nella profondità del mare, sono molli al tatto come carne, ma poi, quando sono portati in superficie, staccati dalle rocce originarie diventano pietre…”

foto Melli

 

Un frammento di fibula con inserti in corallo, risalente al VI-V secolo a.C. e ritrovato durante scavi archeologici effettuati a Genova. Il corallo utilizzato potrebbe essere stato pescato sul Promontorio di Portofino, ma anche in altri siti delle coste settentrionali del Mediterraneo. Da escludere invece una sua provenienza nordafricana

 

Nel Medioevo appare invece più certa la commercializzazione di corallo che veniva venduto a “cantari” (barili) e di sale. Erano soprattutto i centri costieri compresi tra Chiavari

ed il Promontorio di Portofino a trarre vantaggi economici dalla vendita di questi prodotti.

Probabilmente i banchi di corallo presenti lungo il Promontorio di Portofino rappresentarono per lungo tempo una risorsa ma furono pian piano abbandonati quando non si dimostrarono sufficientemente ricchi. Così molti Liguri iniziarono a cercare nuovi banchi lungo le coste del Mediterraneo.

La riproduzione di una carta che indica le zone di pesca del corallo rosso nel Mediterraneo utilizzate anche nell'antichità

 

Nella buona stagione i corallari partivano con particolari imbarcazioni dette “coralline” alla ricerca di banchi, soprattutto in Sardegna e Corsica, la cui posizione geografica veniva ritrovata grazie alle armie. Per i Liguri era una buona attività, soprattutto fin quando poterono disporre di colonie nelle due isole dell’alto Tirreno ed in altre zone del Mediterraneo. Nell’isola di Tabarca in africa settentrionale, che aveva fondali molto ricchi di corallo, si stabilì una colonia di Genovesi, proprio per effettuare questo tipo di pesca.

Nel XVIII secolo si hanno due esempi di come già si cercassero di tutelare i fondali, forse perché si era compreso il valore della loro importanza per la vita del mare. I corallari di Pescino durante l’inverno tornavano alle loro parrocchie e cercavano comunque di occuparsi in altre attività. Nel 1757 il Magistrato dei provvisori delle galee (una carica genovese) a domanda degli appaltatori della gabella dei pesci di Genova pubblicò una Grida (un annuncio) vietando ai pescatori di usare un attrezzo da pesca chiamato Bronzino, con la motivazione che lo stesso rovinava i fondali. Nel 1770, periodo in cui la pesca del corallo era stata quasi abbandonata dalle popolazioni vicine al Promontorio per l’eccessivo sfruttamento dei banchi e per il rischio rappresentato dai Corsi e dai Turchi, accadde una cosa quasi inaspettata: l’attuale Area Marina Protetta fu presa di mira da quattro coralline catalane che iniziarono a pescare corallo.

Furono così avvisate le autorità di Rapallo (il Capitano) perché provvedessero al riguardo.

Il mare allora come oggi era una risorsa. Riportiamo integralmente le frasi che furono usate in occasione di quella vicenda: “vengono a pescare coi raspini a’ coralli proprio in quelle acque, e con detti raspini sradicano i scogli dove nasce il corallo con pregiudizio delle persone di questa comunità”.

Intorno al 1820  vi fu un tentativo di riprendere l’attività in Barberia da parte dei Sammargheritesi, che ebbe  scarsi risultati. I pescatori si spingevano fin sulle coste africane

ed il Promontorio di Portofino a trarre vantaggi economici dalla vendita di questi prodotti.

Probabilmente i banchi di corallo presenti lungo il Promontorio di Portofino rappresentarono per lungo tempo una risorsa ma furono pian piano abbandonati quando non si dimostrarono sufficientemente ricchi. Così molti Liguri iniziarono a cercare nuovi banchi lungo le coste del Mediterraneo.

 

I due attrezzi utilizzati per la pesca del corallo nell'antichità. A sinistra la croce di S. Andrea e a destra l'ingegno

 

Un disegno approssimativo che illustra le modalità di utilizzo della croce di S. Andrea

 

Nella buona stagione i corallari partivano con particolari imbarcazioni dette “coralline” alla ricerca di banchi, soprattutto in Sardegna e Corsica, la cui posizione geografica veniva ritrovata grazie alle armie. Per i Liguri era una buona attività, soprattutto fin quando poterono disporre di colonie nelle due isole dell’alto Tirreno ed in altre zone del Mediterraneo. Nell’isola di Tabarca in africa settentrionale, che aveva fondali molto ricchi di corallo, si stabilì una colonia di Genovesi, proprio per effettuare questo tipo di pesca.

Nel XVIII secolo si hanno due esempi di come già si cercassero di tutelare i fondali, forse perché si era compreso il valore della loro importanza per la vita del mare. I corallari di Pescino durante l’inverno tornavano alle loro parrocchie e cercavano comunque di occuparsi in altre attività. Nel 1757 il Magistrato dei provvisori delle galee (una carica genovese) a domanda degli appaltatori della gabella dei pesci di Genova pubblicò una Grida (un annuncio) vietando ai pescatori di usare un attrezzo da pesca chiamato Bronzino, con la motivazione che lo stesso rovinava i fondali. Nel 1770, periodo in cui la pesca del corallo era stata quasi abbandonata dalle popolazioni vicine al Promontorio per l’eccessivo sfruttamento dei banchi e per il rischio rappresentato dai Corsi e dai Turchi, accadde una cosa quasi inaspettata: l’attuale Area Marina Protetta fu presa di mira da quattro coralline catalane che iniziarono a pescare corallo.

foto Capurro

In alto una croce di S. Andrea, utilizzata anticamente per pescare il corallo, osservata e fotografata in Sardegna. In basso una pietra fotografata qualche anno fa sui fondali dell'Area Marina Protetta di Portofino e somigliante a quella che sorregge i bracci della croce di S. Andrea

 

Furono così avvisate le autorità di Rapallo (il Capitano) perché provvedessero al riguardo.

Il mare allora come oggi era una risorsa. Riportiamo integralmente le frasi che furono usate in occasione di quella vicenda: “vengono a pescare coi raspini a’ coralli proprio in quelle acque, e con detti raspini sradicano i scogli dove nasce il corallo con pregiudizio delle persone di questa comunità”.

Intorno al 1820  vi fu un tentativo di riprendere l’attività in Barberia da parte dei Sammargheritesi, che ebbe  scarsi risultati. I pescatori si spingevano fin sulle coste africane rischiando spesso la vita. È del 1837 la notizia di alcuni corallari di S. Margherita, che furono quasi tutti trucidati, in una cala vicino ad Algeri da corsari turchi.

Nell’anno 1873 a S. Margherita Ligure erano occupati nella pesca del corallo circa 500 uomini, imbarcati su circa un centinaio di barche. Ancora nel 1877 nello stesso borgo veniva compilato un regolamento per disciplinare questo tipo di pesca.

Per i corallari era ormai  finita l’epoca d’oro e,  a parte la parentesi rappresentata dalla scoperta e lo sfruttamento di nuovi banchi a Sciacca, venne il momento di abbandonare l’attività, comunque nefasta per l’ambiente. Oggi questa pesca è vietata anche perché utilizzava attrezzi devastanti. Vediamo quali:

La Croce di S. Andrea, visibile nel disegno della pagina precedente, aveva delle specie di rampini per staccare il corallo o, più semplicemente, delle reticelle attaccate all’estremità di quattro braccia. Consentiva di entrare negli anfratti dove il corallo cresce “a testa in giù” e di “sradicarlo”. 

L’Ingegno, anch’esso visibile nel disegno della pagina precedente, era costituito da un palo su cui venivano fissate alcune corde che portavano, legate a varie distanze, delle reticelle. Riusciva a lavorare in condizioni diverse da quelle della Croce di S. Andrea; a profondità superiori, oltre i 40 metri, dove è molto buio e il corallo si sviluppa su pareti perpendicolari a “testa in su”, o più in superficie, ma comunque in ambienti abbastanza bui, dove la forte corrente marina non consente l’accumularsi di detriti sulla superficie delle rocce e il corallo può attecchirvi e svilupparsi all’esterno degli anfratti e a “testa in su” (Bocche di Bonifacio).

Le coralline erano imbarcazioni simili a quelle utilizzate per altri tipi di pesca, generalmente lunghe una decina di metri che avevano generalmente un attrezzo di pesca a poppa ed uno a prua. I corallari si muovevano lungo le coste fintanto che le reti non erano riempite a sufficienza. Queste manovre provocavano, oltre che la semidistruzione delle colonie di corallo, anche la lacerazione delle reti. Per questo motivo sulle barche non mancavano mai grandi quantità di filo per operarne la riparazione. Vale ancora la pena ricordare che a Portofino nel XII secolo grazie ai proventi derivanti dalla pesca del corallo venne eretto un piccolo tempio presso la cappella di S. Giorgio, a testimonianza della forte devozione delle genti locali.