Episodi del diciannovesimo secolo

 

Il sacrificio di Maria Avegno

Non mancarono atti di altruismo e di eroismo nella popolazione che abitava il Promontorio. Nella primavera del 1855, precisamente il 24 aprile,  il piroscafo Inglese Croesus partì da Genova diretto in Crimea, dove, alla guerra contro i Russi da poco partecipavano anche le truppe del Regno di Sardegna a fianco di quelle Inglesi e Francesi. La nave aveva a bordo circa 300 tra ufficiali e soldati del regno, bagagli e muli, e rimorchiava un'altra nave carica di viveri e munizioni. Improvvisamente all'altezza del Promontorio, nelle acque dell'Area Marina Protetta, sul piroscafo si scatenò un incendio e, mentre un'altra nave riportò a rimorchio viveri e munizioni a Genova, il comandante del Croesus diede l'ordine di entrare nella rada di S. Fruttuoso alla massima velocità per arenarsi sulla spiaggia e salvare il maggior numero di vite umane. Ma la nave fu rapidamente avvolta dalle fiamme e i militari per salvarsi si gettarono in mare anche se molti non sapevano neanche nuotare. In loro soccorso accorsero gli abitanti del borgo con numerose  barche da pesca. Tra i soccorritori Caterina e Maria Avegno. L'imbarcazione di quest'ultima, madre di sei figli, si rovesciò e i naufraghi disperati, aggrappatisi alla donna,  le impedirono di nuotare, causando senza volerlo la sua morte. La coraggiosa donna venne sepolta vicino ai Doria all'interno dell'abbazia e le fu conferita la medaglia d'oro alla memoria (prima donna italiana a riceverla).

La casa delle sorelle Avegno con la lapide apposta dalla Città di Camogli nel 1905. La lapide venne distrutta nell’alluvione del 1915 e sostituita con quella riprodotta in basso

 

La memoria dell’evento

C’è una tomba  nell’Abbazia di San Fruttuoso di Camogli, tra quelle di abati e principi, che ospita le spoglie di Maria Avegno, che non era nobile di nascita, ma certamente d’animo. Il suo nome è scritto nel libro d’oro della Cattedrale di Notre Dame a Parigi, insieme a quelli di coloro che hanno perso la vita per salvare il prossimo.

Alla memoria di questa donna, la Regina Vittoria conferì la Victoria Cross, la più alta onorificenza militare britannica, mentre il governo del Regno di Sardegna, nel giugno del 1855,  concesse la medaglia d’oro al Valor Civile.  Era la prima volta che questo riconoscimento, seppure postumo, veniva assegnato ad una donna italiana. 

Oggi, a distanza di molti anni da quel che stiamo per narrare, il nome di Maria e di sua sorella, non meno eroica, intitolano un belvedere a Camogli, che si affaccia sul mare, uno dei protagonisti di questa storia.

La mattina del 24 aprile 1855, non si sa bene se con forte vento di maestrale o con bonaccia, il piroscafo inglese Croesus, diretto in Crimea, partì dal Porto di Genova con un carico di soldati e di armi. A controllare le operazioni di imbarco sembra vi fossero anche Cavour e Rattazzi.  Il piroscafo trainava un veliero, il Pedestrian, e già durante l’uscita dal porto si verificò un primo incidente: le due navi si toccarono, danneggiando il bompresso e forse l’albero di trinchetto del veliero.  Il danno era comunque tale da non compromettere la navigazione a traino.

Fu il preludio a quel che doveva avvenire. Intorno a mezzogiorno, nei pressi di Punta Chiappa, il carbone trasportato come combustibile dal Croesus si incendiò, sembra per autocombustione dello stesso o dei gas prodotti, e le fiamme avvolsero rapidamente il piroscafo.

Il comandante John Vine Hall ordinò immediatamente di tagliare il cavo del veliero a traino, che, navigando con qualche problema per i danni subiti in precedenza, riuscì a tornare a Genova. Quando il comandante si rese conto che il fuoco aveva ormai la meglio sulle pompe antincendio di bordo, per evitare il peggio, diede ordine di gettare a mare esplosivi e munizioni e, per quanto possibile, continuò a navigare a vela lungo la costa del Promontorio di Portofino cercando un luogo dove arenare il piroscafo.

Il tentativo del comandante era chiaro: cercare di salvare uomini e materiali. Sapeva bene che la nave era perduta e che molti degli uomini imbarcati non avevano nemmeno mai visto il mare e, tantomeno, sapevano nuotare.

Hall diresse la prua verso la Baia di San Fruttuoso e si arenò in corrispondenza della punta che divide la spiaggia dell’Abbazia da quella del Mulino.

Non è difficile immaginare la scena, con il grande piroscafo in fiamme davanti al borgo, dal quale si levavano urla disperate, con uomini che si gettavano in mare ed altri divisi tra la paura di annegare e la speranza di essere soccorsi.

Ormai nessuno sa bene quel che successe e come si organizzarono gli abitanti del borgo. Probabilmente molti erano in mare, ma i più erano imbarcati come marinai sulle navi camogliesi, tant’è che all’ora del disastro  vi erano solo due gozzi sulla riva, il primo calato in acqua e utilizzato da Maria e Caterina Avegno e l’altro dal marito di Maria, Giovanni Oneto.

Si doveva fare in fretta e i tre continuarono a trasportare persone in salvo. Ma la confusione e la disperazione dei naufraghi causò un’ulteriore tragedia. Le mani di quei disperati si aggrapparono al gozzo delle sorelle e lo rovesciarono. Nonostante Maria e Caterina fossero abili nuotatrici, il peso dei disperati che chiedevano aiuto aggrappandosi a loro le costrinse più volte sott’acqua e mentre Maria perdeva la sua vita, Caterina, provata e quasi affogata, fu aiutata a raggiungere la riva da un marinaio inglese.

Erano le prime ore del pomeriggio quando da Camogli giunsero i soccorsi e tutti i superstiti furono sbarcati. Oltre ai sopravvissuti, sulla spiaggia vi erano cinque morti, ma alla fine verranno recuperati altri 19 corpi, e tra questi anche quello di Maria Avegno, ritrovato solo dopo quattro giorni da quello della tragedia.

Nelle acque davanti al borgo, il piroscafo bruciò per alcuni giorni, per poi spezzarsi e colare a picco dopo una tempesta.

Oggi il mare e alcuni recuperi di materiali effettuati in epoche diverse hanno praticamente cancellato i segni del disastro. È giusto però ricordare, oltre a Maria, anche le azioni del comandante Hill e l’eroismo degli altri abitanti del borgo, che hanno evitato che la tragedia assumesse proporzioni ben più vistose.

 

Due dipinti che raffigurano il disastro. Quello più in alto risale all’epoca dell’avvenimento, mentre quello grande in basso raffigura una ricostruzione recente dell’avvenimento, ispirata proprio dal dipinto più antico e opera del pittore Dal Pozzo

 

Il contesto storico

Nell’anno 1855, la Liguria faceva ormai parte del piccolo Regno di Sardegna. Pochi anni prima (1853), l’Impero Ottomano, ormai in declino, subiva le mire espansionistiche della Russia, che gli aveva dichiarato guerra allo scopo di impadronirsi della Crimea e quindi di assicurarsi in questo modo uno sbocco sul Mar Nero e, di fatto, sul Mediterraneo.

Inghilterra e Francia per limitarne l’espansione dichiararono guerra alla Russia e, in quest’ottica favorevole Camillo Benso conte di Cavour, Primo Ministro del Regno di Sardegna, convinse Vittorio Emanuele II a partecipare al conflitto a fianco di Francia e Inghilterra.

Le due potenze europee non rifiutarono l’alleanza, interessate soprattutto ad utilizzare il Porto di Genova come scalo privilegiato per rifornire i navigli destinati alle truppe impegnate in Crimea.

La guerra vinta dagli alleati, costrinse la Russia ad abbandonare i territori occupati e ad accettare le condizioni della resa.

La partecipazione al conflitto fu una mossa strategica per il Regno di Sardegna perché l’alleanza fu subordinata alla stipula, il 26 gennaio 1855, di una convenzione militare. In essa l’articolo 6 prevede che la Francia e la Gran Bretagna: «garantiscono l’integrità degli Stati di S. M. il Re di Sardegna e s’impegnano a difenderli contro ogni attacco per la durata della presente guerra».

Con il documento il piccolo regno voleva in qualche modo far meglio fronte o scoraggiare  un’eventuale aggressione dell’Austria.

Il corpo di spedizione del Regno di Sardegna  era costituito da 2 divisioni, composte da 18.058 uomini e 3.496 cavalli. Sembra che, rispetto agli accordi si contassero 3.000 uomini in più.

Le navi che imbarcarono il piccolo esercito partirono da Genova alla fine dell’aprile 1855, per sbarcare i soldati, dopo una sosta, a Balaklava, nel mese di maggio. Non fu solo la guerra, che doveva iniziare per loro da lì a poco, a metterli in pericolo, ma anche un’epidemia di colera che ne uccise circa 1300 fra cui il Generale La Marmora.

 

Il sacco di Genova

Con questo termine viene indicata una vicenda tra le più tristi che toccarono Genova e la Liguria negli anni successivi all'annessione della regione al  Regno di Sardegna. Tra il 9 e l'11 aprile 1849 dopo che Vittorio Emanuele II, alla fine della prima guerra d'indipendenza, firmò a Novara l'armistizio con gli Austriaci vittoriosi, nel capoluogo ligure il malcontento popolare diede origine ai Moti di Genova
Il popolo riuscì a ricostituire un governo indipendente ma  da lì a poco il Re invio il generale La Marmora  a sedare i tumulti.
Gli scontri furono violentissimi e la città venne bombardata, senza preavviso contro ogni regola di diritto internazionale, anche da un vascello Inglese. Inoltre i cannoni posti sul molo a difesa di Genova caddero in mano dei  soldati inglesi e rivolti da questi contro la città.
La Marmora prese parecchie posizioni con l'inganno sino alla resa dei rivoltosi.
Durante la rivolta si distinsero molti genovesi e alcuni marinai, membri dell'equipaggio di un brigantino americano, che si schierarono con i cittadini.
Fu questa una delle pagine più buie della storia di Genova perché dopo la fine della battaglia molti soldati si abbandonarono alle più orrende meschinità, uccidendo senza motivo, violentando e rapinando la popolazione.