Anche alle mosche piacciono i fiori

 

I fiori di alcune piante, o meglio le loro infiorescenze, composte da più fiori raggruppati insieme, formano una struttura chiamata spadice. Ci fornisce un esempio di questo tipo di infiorescenza la comune calla venduta dai fioristi.

Lo spadice non è un’infiorescenza comune tra le piante, ma è tipica di una famiglia, le Araceae,  che in Liguria è rappresentata da solo quattro specie spontanee.

Solitamente questo tipo di infiorescenza si trova all’interno di una spata che la avvolge, ossia una struttura che  ha ben poco a che vedere con i fiori e all’apparenza sembra solo proteggerli. Il suo ruolo però è  importante e la sua assenza crea notevoli problemi all’impollinazione.

Ma perché?

Se proviamo a guardare meglio la spata formata da queste piante, ci potremmo accorgere facilmente che è costituita da un tessuto spugnoso, con spazi tra le cellule (si schiaccia facilmente tra le dita), in questo modo diviene coibente, garantendo un buon isolamento termico tra l’ambiente esterno e quello interno.

Infatti lo spadice produce energia, consumando amido, e, grazie alla rottura di legami chimici, riesce ad alzare di alcuni gradi la temperatura all’interno della spata, rispetto all’esterno. Se non vi fosse un sistema capace di mantenere alta la temperatura, non si riuscirebbero a  rendere volatili alcune sostanze dall’aroma nauseabondo, solitamente di carne marcia. Queste hanno lo scopo di attirare gli insetti impollinatori, che in questo caso sono prevalentemente mosche e qualche coleottero.

Ma cosa fanno gli insetti una volta giunti sulla struttura fiorale?

Prima di tutto cercano il loro Eldorado, la “succulenta” carne stagionata. Non la troveranno mai, ma incuriositi entreranno dentro il sottile passaggio formato in corrispondenza di un restringimento della spata.

Ecco una prima fila di grossi peli ritorti. Appena superati, le zampe degli insetti non aderiscono più bene alla superficie interna della spata ed essi scivolano sempre più giù sino alla base dell’infiorescenza.

Là sotto ci si sente in trappola, non si riesce a risalire per via delle pareti viscide e delle corone di peli; due per l’esattezza! È come finire dentro una nassa verticale, ma la pianta non è crudele e vicino ai fiori femminili, che si trovano  in basso, escono gocce di liquido.

È tutto calcolato, perché la pianta “vuole” che l’insetto tocchi lo stimma, ossia la parte su cui deve posarsi il polline maschile, così lo spinge ad avvicinarsi ai fiori, attirandolo grazie al saporito nettare e sperando che ad appoggiarsi allo stimma sia proprio un insetto che abbia  già visitato un altro fiore, sporcandosi di “seme” maschile.

Alle mosche è offerto un pasto ed un posto caldo in cui dormire, sempre che le mosche riescano a farlo e non siano troppo agitate. Quando la mattina si svegliano una strana neve cade su di loro. È il polline maschile che scende dai fiori posti al “piano” superiore. Ora si riesce anche ad uscire perché i peli si sono disseccati e le pareti della spata non sono più scivolose. “Chissà che fuori non ci sia un altro aro maturo – potrebbero pensare le mosche – in fondo, quando ci si abitua, questa vita non è poi così male”.

 

 

Infiorescenza di aro o di gigaro (Arum italicum). Si notino gli ovari dei fiori femminili (in basso), le due corone di peli e i fiori maschili (in mezzo alle corone). In questo caso il polline è già sceso e si vede come una polverina gialla alla base della spata. Si noti anche lo spessore del tessuto spugnoso che costituisce la spata, sezionata per mettere in evidenza l'infiorescenza.

 

Al nostro naso è ben difficile che giunga l’odore delle sostanze liberate dagli ari, a meno che non ci si avvicini all’infiorescenza durante la giornata di “riscaldamento” del fiore. Diversa è la situazione del dracunculo, una grossa pianta dal fiore molto appariscente. Quando l’infiorescenza è pronta, l’odore nauseabondo che emana si percepisce già ad alcuni metri di distanza. Ma questa pianta fa di più ed anche la spata somiglia molto ad un pezzo di carne, sia per il colore che per l’aspetto della sua superficie.

In alcune zone il dracunculo è anche noto come serpentaria e in altre come erba da biscia, forse perché nella medicina popolare il suo rizoma grattugiato veniva utilizzato contro le punture di serpenti velenosi.

Alla fine della turbolenta impollinazione dell’aro, se tutto va bene, lungo l’asse dello spadice si ingrossano frutti verdastri, che al termine della maturazione divengono di un colore rosso brillante. In estate queste infruttescenze spuntano spesso dai prati falciati, come squisiti frutti silvestri. Ma attenzione, il nome volgare di questa specie è anche “pan di serpe”, forse a sottolineare la velenosità dei frutti. Comunque, quale sia il motivo per cui l’aro si è meritato tale appellativo, va detto che i composti contenuti nelle bacche creano dolori immediati alla bocca, dissuadendo i malcapitati, ed è questo il motivo principale per il quale non sembra abbia causato grossi avvelenamenti.

La principale sostanza irritante contenuta nel vegetale è l’acido ossalico, una sostanza che si degrada dopo cottura (termolabile) e ciò ha  consentito ad alcune popolazioni  di cibarsi del suo rizoma.

Una cosa è certa, le Araceae hanno aspetto e fioritura quanto meno singolari, che hanno contribuito a mantenere su di loro un alone di diffidenza, comunque giustificato dalla loro velenosità.

 

fiori di arisaro (Arisarum vulgare)

 

 

Fiore di dracunculo (Dracunculus vulgaris), pianta tipica delle aree temperate degli ambienti mediterranei

 

 

Foglie di aro maculato (Arum maculatum), una pianta che cresce prevalentemente in ambienti freschi e montani.

 

 

Infruttescenza di aro. Si notino i piccoli frutti verdi e rossi.